
Perché vogliamo essere felici ma non accettiamo di soffrire? Perché vogliamo essere amati ma non riusciamo ad essere vulnerabili?
Abbiamo paura della vita, e questo si rivela “nel nostro continuo affaccendarci per non sentire: corriamo per non affrontare noi stessi, ci diamo ai liquori o alle droghe per non percepire il nostro essere. Poiché abbiamo paura della vita, cerchiamo di controllarla o dominarla. Crediamo che essere trasportati dalle emozioni sia nocivo o pericoloso. Ammiriamo le persone calme, che agiscono senza emozionarsi. Il nostro eroe è James Bond, agente segreto 007. Nella nostra cultura si dà importanza all’azione, al fatto compiuto. L’individuo moderno è tenuto ad avere successo, non ad essere una persona. Egli appartiene alla ‘generazione attiva’, il cui motto è fare di più, ma sentire di meno”, così scrive Alexander Lowen, psicoterapeuta e psichiatra statunitense, nell’introduzione al saggio Paura di vivere.
Per Lowen questa descrizione può applicarsi a ciascuno di noi, in gradi diversi, in quanto appartenenti a una cultura i cui valori dominanti sono il potere e il progresso, che presuppongono la prevalenza della vita attiva su quella contemplativa.
Ma quanto abbiamo interiorizzato tali valori?
Possiamo capirlo chiedendoci quante volte fuggiamo dalla frustrazione o dall’angoscia ponendoci nuovi obiettivi da raggiungere o quante volte tentiamo di colmare il vuoto e la solitudine con presenze non significative.
Spesso chiamiamo vivere il sopravvivere. In un illusorio presentismo ci destreggiamo tra le prove a cui la vita ci sottopone, aspettando una validazione esterna che gratifichi le nostre azioni. Perché è nel nostro fare che ci identifichiamo.
Ma Lowen dice ancora che una persona “non è qualcosa che si può fare”, perché la crescita della personalità umana non si realizza mediante l’azione.
L’identità è una realtà da sentire, in cui per sentire si intende disimparare ad avere familiarità con la superficie delle cose per conoscerne il fondo.
Nuotare a pelo del mare della vita significa nutrirsi della stabilità delle apparenze. Accontentarsi di guardare i contorni e la forma della cornice senza ammirare i disegni e i colori del dipinto. Ed esplorare il temibile fondale è avere il coraggio di guardare al sentimento per non perire davanti all’emozione, di reagire alla propria umanità con commozione, nonostante sarebbe più facile nutrire indifferenza.
Perché non c’è gratitudine senza esperienza della miseria e non c’è grandezza senza esperienza di piccolezza.
Allo stesso modo noi non possiamo essere felici senza soffrire. Temiamo che la percezione delle nostre ferite, nella sua intensità, ci sovrasti. Ma finché non prenderemo coscienza della nostra sofferenza ci sentiremo soli al mondo e finché non accetteremo di essere vulnerabili mai ci sentiremo amati nel nostro essere.
Perché è solo nel sentire anche l’instabilità, l’incertezza, la paura, la ricerca e l’angoscia che possiamo provare l’armonia, la sicurezza, la gioia e la tenerezza.
Perché è solo nella totale accettazione dei nostri sentimenti che possiamo riconoscerci e sentirci riconosciuti sia nello splendore e nella tragicità dell’umanità sia nel Mistero che ci avvolge. E Amare ed essere amati. Ed essere felici.