Aprile 30, 2022

A parer di Aristotele, la nostra massima felicità consiste nella compiuta realizzazione della
facoltà che ci è esclusiva: la razionalità.

Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione […] se poniamo come funzione
dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da
ragione) e funzione propria dell’uomo eccellente di attuarle bene e perfettamente […], il bene
dell’uomo consiste in una attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una,
secondo la migliore e la più perfetta.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1098 a 7-18

Nel medioevo la posizione dello Stagirita è diventata un punto di riferimento con cui
inevitabilmente si doveva confrontare chiunque volesse parlare del sommo bene.
Fra questi, anche il maestro delle arti Boezio di Dacia, il quale, nel suo De summo bono, sostiene
che, conseguentemente a questa definizione di felicità, gli uomini che permettono ai soli piaceri dei
sensi di possederli trascurando i beni dell’intelletto, devono essere fortemente commiserati e che
contro di essi, il filosofo si sarebbe scagliato (non è testimoniato nei testi di Aristotele a noi
pervenuti) affermando: «Guai a voi uomini che siete annoverati alla pari delle bestie, perché non
capite che cosa vi è di divino in voi».
Aristotele riflette sul fatto che tutte le forze dell’universo tendono a Dio, il primo motore immobile,
come causa finale; ogni cosa va incontro alla perfezione divina e, in questo modo,
continuamente è tesa alla piena attualizzazione della propria potenzialità.
Quale strumento funge da ponte, tra l’uomo e la beatitudine?
L’esercizio della razionalità
; essa è quanto è in noi di più alto e perfetto. Così l’uomo è veramente
tale, distinto dalle altre specie; un nobile uso di questo prezioso strumento ci rende virtuosi e ci
abilita al piacere della contemplazione del vero.

Nessun genere di virtù si genera in noi per natura, ma ognuno di noi è predisposto ad accoglierle e
portarle a perfezione tramite l’abitudine.
Come si concretizza questo presupposto giovamento nella nostra quotidianità?
Si agisce secondo virtù per le passioni e le azioni, in cui il bene mira al giusto mezzo tra due mali: il
signor eccesso e il signor difetto, figli del vecchio vizio e contrari alla virtù.

L’esperienza di San Paolo ci pone innanzi ad un panorama molto più nuvoloso; quante probabilità
esistono di compiere la scelta giusta, di calcolare correttamente il punto medio, di vedere
nitidamente l’orizzonte?
Di calibrare ogni nostra reazione, emozione, azione ed impulso?
Tale bene e felicità sospirati, osannati, idealizzati a cui noi aneliamo, vengono concepiti in
relazione al nostro essere, delimitando un microscopico e limitato cerchio di cui, nei panni d’uomo
di virtù, ci si può vantar di possedere la chiave di accesso. Un parallelismo forse leggermente
azzardato, ma che rende alquanto l’idea, sarebbe immaginare il nostro campo di osservazione,
come una nave e la beatitudine celeste, Dio come l’acqua su cui navighiamo.
Fin dove mai può spingersi la capacità umana di perlustrare le più vaste distese d’acqua, fonte di
vita, così come è Dio, se non si ha il coraggio di tuffarsi nell’immenso mistero?
La ragione, come la poppa, è una delle fondamenta a cui la nave si affida nel viaggio della vita, ma
al contempo è incline a sviluppar tratti narcisistici; come l’esser il solo e indiscusso timone di ogni
pensiero, sentimento, ricordo, moto di azione in noi; potrebbe rischiar di essere l’acqua, risorsa
essenziale, che però sovrasta e soffoca l’incendio del nostro petto.
Quel sentire non concreto, non facilmente dimostrabile e spiegabile, a cui non si giunge per il solo
mezzo razionale, ma che ripone fiducia nella propria bussola; con i suoi tentennamenti, errori e
inceppi.

“In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che
voglio, ma il male che non voglio.”
Questo affermava San Paolo, rendendo spiccia la constatazione che nella massa dei comandamenti
di Dio sono molteplici i terreni su cui è facile scivolare, dove la propria buona volontà si rivela
fallace. Era della convinzione che quella sua meticolosità applicata, sia nell’atto di reprimere gli
appetiti e le passioni, sia nell’osservanza dei comandamenti divini, fosse la condizione per
meritarsi la grazia di Dio.
Si domandò dunque, come perfezionarsi senza trascorrere il tempo a guardarsi, poiché il tratto della
sua matita non era adatta a tratteggiare quell’immagine di perfezione a cui si ispirava; ha impiegato
l’intelletto, la ragione, la volontà, la virtù per poter presentarsi nelle mani del padre come un
capolavoro degno di stima. A dispetto degli sforzi compiuti, si sentì a lungo andare, e soprattutto a
lungo tentare, misero e vuoto dentro. Poi, un giorno sulla via di Damasco, capì.
Capì di dover affidare a Dio ogni certezza irremovibile costruita senza di Lui.
Comprende che l’amore del Padre è di un sentire talmente puro, così incomprensibilmente profondo
e disinteressato a quell’affanno che, come fa il suono del fischietto per il velocista, ci agita nella
performance quotidiana; non è da rincorrere, da sudare, da conquistare come se fosse uno dei
molteplici riconoscimenti di eccellenza che siamo soliti esporre su una parete o su una mensola.
D’altronde, il bene di cui non si potrebbe in nessun caso fare a meno, qual è? Non è forse
l’acqua? E l’acqua, ribadisco, non è forse Dio?

Questo genere di amore, rappresentato dall’acqua che tiene a galla la nostra nave e in vita il corpo,
in quanto tale, è l’unica fonte indispensabile. Come si potrebbe navigare altrimenti?
Affidarsi è il bene più dissetante; saper quando nuotare, quando remare, quando affrontare la
tempesta, quando ricorrere ai ripari è certamente nostro compito. Avanti tutta, si, ma ricordandosi
e ammettendo umilmente a noi stessi, che non è la nave di ognuno di noi ad esser forte e
robusta, ma è l’onda del mare, misteriosa e impalpabile, a cullarci.

Obiettivo Studenti Firenze

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