Settembre 25, 2022

Domenica 25 settembre 2022 si vota per il rinnovo del Parlamento italiano. Per la prima volta i diciottenni voteranno anche al Senato e il numero dei parlamentari da eleggere sarà nettamente inferiore alle tornate precedenti. In molti guardano alle prossime elezioni attendendo una ‘riscossa’ della politica. Qualcuno, infatti, la vede come un’opportunità per i partiti e per i politici di riguadagnare il ruolo che in questi anni hanno quasi del tutto perso. L’accusa è chiara: trent’anni di resa incondizionata della classe politica a soggetti estranei alle dinamiche del consenso elettorale.

Ciò si deve principalmente al rapporto tra eletti ed elettori. Le leggi elettorali che si sono succedute una dietro l’altra non hanno risolto nessun problema: ne il problema della governabilità, ne quello della rappresentanza. Infatti, i sistemi elettorali delle elezioni politiche in Italia hanno avuto un solo risultato: allontanare eletti ed elettori. Dal referendum che ha abolito le preferenze multiple, e dopo la breve parentesi del sistema con solo i collegi uninominali, non si è più avuto un meccanismo in cui il singolo politico avesse il problema di avere una propria costituency. Ciò è evidente: molti politici sono stati eletti in parlamento negli ultimi anni non avendo mai avuto il modo di “contare” il proprio elettorato.

A questo allontanamento della politica è seguito l’avvicendarsi di varie soluzioni: prima l’antipolitica, poi il populismo e adesso, dopo gli anni terribili della pandemia e della guerra in Ucraina, vediamo affacciarsi lo spauracchio dell’astensione. Come aiutarci a non cedere all’ingannevole sentimento di sfiducia che l’alimenta? Oppure, forse è arrivato il momento di chiedersi se il punto non stia da un’altra parte. Per questo io mi domando «se l’Italia è quello che è, se il mondo è quello che è, è perché io sono quello che sono?». Cioè il primo contributo al cambiamento della società non è la politica, non è la burocrazia, non è il lavoro che si ha o non si ha, ma è la mia persona. Ingenuo? Forse. Tuttavia, credo sia possibile ritenere che l’intero impianto democratico, ma più in generale ogni convivenza civile, si basi propio su questo.

Lo sapevano coloro che hanno dato avvio alla vita democratica nel nostro paese. L’11 maggio 1946 Alcide de Gasperi, presidente del Consiglio, tre settimane prima del referendum che mise gli italiani davanti alla scelta tra Monarchia e Repubblica, fece un discorso un po’ strano per convincere il suo elettorato. Disse:

Io non sono qui per farvi un discorso di eccitamento. Desidero fare appello alla vostra riflessione, alla vostra mente e alla vostra volontà. Tutte le piazze e tutti i comizi risuonano oggi della domanda: Repubblica o Monarchia? La domanda è posta male, troppo semplicisticamente. La domanda vera è questa: «Volete instaurare la Repubblica, cioè, vi sentite capaci di assumere su voi, popolo italiano, tutta la responsabilità, tutto il maggior sacrificio, tutta la maggiore partecipazione che esige un regime, il quale fa dipendere tutto, anche il Capo dello Stato dalla vostra personale decisione, espressa con la scheda elettorale?» Se rispondete sì, vuole dire che prendete impegno solenne, definitivo per voi e per i vostri figli di essere più preoccupati della cosa pubblica di quello che non siete stati finora, d’aver consapevolezza che essa è cosa vostra e solo vostra, di dedicarvi ore quotidiane di interessamento e di lavoro; ma soprattutto vorrà dire che avete coscienza di potere con la vostra opera difendere nella Repubblica la libertà che è il bene supremo.”

[A. De Gasperi, Discorso pronunciato alla Basilica di Massenzio, Roma, 11 maggio 1946, pubblicato su «Il Popolo, 12 maggio 1946]

Noi non ci crediamo più di tanto, ma il sistema si fonda su una nostra responsabilità, su una nostra partecipazione. Responsabilità, sacrificio, partecipazione, decisione. Parole strane per un politico, parole che mai oggi sentiremmo dire ma che forse, in fondo, neanche vorremmo sentire. Eppure, la nostra convivenza democratica le presuppone. L’impegno politico passa per tutti attraverso la generazione di un soggetto che dica io. Non è possibile ridurre la democrazia rappresentativa ad un’affermazione generica della sovranità (e quindi della volontà) popolare. Come diceva Simone Weil “una collettività non ha lingua né penna”, ma invece “gli organi di espressione sono tutti individuali.” [S. Weil, Senza partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica, VITA, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 30] In questo senso è necessario intendere la democrazia come lo spazio in cui ognuno può avere la libertà di esprimersi e imparare a riconoscere la libertà degli altri di fare la stessa cosa. È necessario salvaguardare l’idea che la democrazia sia il luogo in cui ognuno, liberamente, può realizzare ciò che più gli sta a cuore.

Delegare non può voler dire abdicare la propria responsabilità e le proprie aspirazioni, farsi rappresentare non può voler dire alienarsi dal contesto sociale, dai problemi e dalle loro soluzioni. Perché il ‘sistema’, l’architettura costituzionale presuppone un elemento, che però non può generare o disciplinare: il singolo, l’io, la persona. Rimarrà infatti sempre vero che “nessun paragrafo di costituzione, nessuna alta corte di giustizia, nessuna autorità può essere d’aiuto, se l’uomo medio non sente che la res publica, il bene comune di una esistenza umana libera e dignitosa, è affidato nelle sue mani.” (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Brescia, 1954, p. 190)

Per cui sì, la politica ha sicuramente bisogno di una riscossa, forse anche di un rinnovamento, e potremmo anche immaginare un nuovo sistema, una nuova legge elettorale, che riduca la distanza tra rappresentanti e rappresentati. Tuttavia, questo sarebbe del tutto inutile senza il recupero e la riscossa del popolo, delle persone che devono votare. La politica è lo specchio della società che rappresenta. Perché la politica e i politici hanno bisogno di qualcuno da rappresentare, hanno cioè bisogno di riconoscere un valore umano e sociale che possa essere rappresentato, anche politicamente. Per questo dal 25 di settembre sarà giusto interrogarsi anche su questo: ma io cosa chiedo alla politica? Il clima “antipolitico” prima e “populista” dopo in cui abbiamo vissuto in tutti questi anni che ci ha spinto a prendere le distanze da ciò che è d’interesse generale, ha il potenziale per farci accorgere della natura “pubblica” (e quindi “politica”) della nostra esistenza, come semplici persone, non deputati, sindaci o consiglieri. Senza un desiderio ed un tentativo personale di bene, non può esistere alcuna concezione comune di politica. Dobbiamo essere consapevoli che ciò di cui la politica ha bisogno è prima di tutto la consapevolezza di ognuno del valore pubblico, e quindi politico, del proprio vivere.

Pertanto, il bene comune non è una teoria, non è uno schieramento a priori; è una nozione pratica. Non si percepisce se non da chi è concretamente impegnato con la realtà che ha davanti. Questo impegno può iniziare sicuramente domenica con una croce sulla scheda elettorale, ma se continua nelle nostre vite è una scelta che ognuno deve prendere per sé in ogni momento.

Obiettivo Studenti Firenze

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